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In un articolo precedente ho scritto delle implicazioni psicosociali nei pazienti affetti da tumore. Con questo articolo vorrei aggiungere un tassello al mosaico, parlando di un aspetto altrettanto importante quando si parla di cancro: la famiglia.

Se la persona colpita dalla malattia rappresenta il protagonista principale, la famiglia assume un ruolo altrettanto significativo. Di fatto, la stessa comprensione delle reazioni emozionali del paziente è resa più completa dall’analisi delle reazioni della famiglia nel suo insieme, in quanto sistema primario di supporto. Il cancro è da considerarsi un evento traumatico familiare, una malattia familiare che minaccia l’unità della famiglia e che crea cambiamenti importanti nella sua struttura e nel suo funzionamento.

Il momento della diagnosi è certamente un evento estremamente traumatico per la famiglia che, parallelamente al proprio congiunto ammalato, sperimenta reazioni fisiologiche acute caratterizzate da shock, con sentimenti di angoscia paralizzante, di rabbia, di stupore incredulo. Momenti di negazione e rifiuto di quanto sta accadendo si intrecciano a momenti di disperazione, in cui prevalgono sentimenti di ineluttabilità, separazione e perdita per il proprio congiunto, vissuto come “destinato a morire”. A queste reazioni fanno seguito risposte di elaborazione finalizzate all’adattamento e all’accettazione dell’inevitabilità degli eventi. In questo periodo la famiglia può manifestare stili difensivi diversi. Meccanismi di modellamento o occultamento della verità, determinati dal bisogno di mantenere l’equilibrio proprio e del paziente possono alternarsi o associarsi a meccanismi di ipercoinvolgimento, a sentimenti di ansia marcata e a modalità iperprotettive nei confronti del proprio congiunto, talvolta con ricerca di cure e terapie miracolose. In altre circostanze possono prevalere atteggiamenti di distanziamento, in cui meccanismi di isolamento e allontanamento della persona ammalata si configurano in una evidente delega di tutto quanto concerne la malattia a luoghi e persone all’esterno della famiglia. La fase di accettazione di quanto è accaduto può determinare il superamento delle difficoltà collegate alla malattia e il progressivo riadattamento delle modalità comunicative e delle dinamiche intra-familiari, con il raggiungimento di un nuovo equilibrio. Ciò è particolarmente evidente nelle situazioni in cui la patologia neoplastica esita in una guarigione clinica, con scomparsa della malattia e lunga sopravvivenza della persona. In molti casi, tuttavia, l’effetto dirompente del cancro mette in evidenza problematiche familiari gravi e precedenti la malattia, che provocano la disorganizzazione della famiglia stessa.

La relazione coniugale viene colpita in maniera marcata dalla malattia. Difficoltà a parlare della malattia (negata, nascosta, taciuta) o, qualora si sia potuto nominare il cancro, della paura della malattia (la sensazione della sua continua presenza, il timore della sua ricomparsa) sono elementi immediatamente visibili nella relazione con la famiglia. In altri casi, specie nelle relazioni in cui vi sia un buon livello di comunicazione, la malattia può essere vissuta come un nemico estraneo verso il quale unirsi per combatterlo e sconfiggerlo. Gli atteggiamenti del coniuge sano tendono in genere a modificarsi assumendo contorni caratterizzati da aumento del calore affettivo e diminuzione della critica e dell’ostilità, al fine di sostenere il coniuge malato. È chiaro che anche la gravità della situazione fisica del paziente, con il notevole carico che comporta per chi gli sta accanto, si pone come importante elemento nel determinare situazioni di esaurimento emotivo della coppia. Inoltre, differenze sono presenti se ad essere colpito è il marito piuttosto che la moglie, essendo stato riportato come in quest’ultimo caso il livello di disagio e sofferenza psicologica sia maggiore. Benché sia difficile generalizzare, alcune delle modalità di reazione della coppia rispetto alla diagnosi di cancro di uno dei suoi membri possono essere le seguenti:

  • Protezione: la coppia si stringe fortemente e il partner sano aumenta il calore affettivo, diminuisce la critica e l’ostilità, riuscendo a mantenere aperta la comunicazione.
  • Iperprotezione – regressione: aumento esasperato delle modalità di protezione verso il partner ammalato, con abnegazione e rinuncia ai propri bisogni da parte del partner sano.
  • Paralisi: la coppia resta in una posizione di blocco, non riuscendo a parlare di quanto accaduto.
  • Crisi coniugale: la malattia può rappresentare la causa scatenante di problemi di coppia pre-esistenti e coperti. Disinteresse, più o meno mascherato, o franche modalità aggressive si evidenziano tra il partner sano e quello malato.
  • Chiusura: modalità di ritiro e riduzione dei contatti con l’esterno sono un’altra possibile modalità di reazione della coppia che, se protratta troppo a lungo, può comportare sentimenti di isolamento e vuoto.

Anche alla reazione emozionale dei figli di un genitore che si ammala di tumore è stata per lungo tempo prestata poca attenzione. È frequente infatti che i figli, specie se in età infantile o adolescenziale, vengano estromessi da quanto sta accadendo nella convinzione che essi non capirebbero, che è meglio non farli soffrire o che non sono sufficientemente autonomi. Che i figli risentano in maniera notevole della malattia di un genitore è evidente. Circa un terzo dei bambini reagisce mettendo in evidenza disturbi del comportamento a scuola, difficoltà del sonno e disturbi dell’alimentazione, difficoltà di relazione coi compagni e a volte comparsa di atteggiamenti aggressivi. Queste reazioni tendono ad essere maggiormente evidenti quando la malattia del genitore ha una lunga durata, quando l’adattamento del genitore è scarso e quando il figlio ha ricevuto poche informazioni rispetto agli eventi. È chiaro che l’età del proprio figlio, e quindi la fase di sviluppo psicologico raggiunta, assume importanza nella reazione che questi manifesta verso la malattia del proprio genitore. Nei bambini molto piccoli è chiaro che la comprensione di quanto può accadere al papà o alla mamma è molto scarsa. Quando il bambino è un po’ più grande (tra i 3 e i 10 anni) la percezione del pericolo della malattia è maggiore. Vengono registrati in questa età sentimenti di solitudine, separazione e perdita, stati di ansia e depressione, associati a idee di colpa legate alla percezione di un proprio ruolo nell’aver fatto ammalare il genitore. Nei bambini in età pre-adolescenziale (10-13 anni) le risposte possono essere assai diverse con tentativi di auto-responsabilizzazione per tamponare le angosce legate alla percezione di insicurezza e fragilità della famiglia, mista a sentimenti di rabbia per la perdita del sostegno familiare, necessario invece in quell’età per la propria sicurezza. In età adolescenziale (13-18 anni), emergono sentimenti di ambivalenza connessi al conflitto tra i propri bisogni di autonomia, indipendenza e separazione, e i sentimenti di colpa legati a non voler rinunciare alla libertà ma a dover al contempo sostenere il gruppo familiare in crisi.

Nella fase avanzata, le reazioni emozionali della famiglia raggiungono il loro livello di maggior intensità. La consapevolezza di aver esaurito gli strumenti terapeutici, l’aggravamento continuo delle condizioni fisiche del proprio congiunto e la consapevolezza dell’ineluttabilità del percorso verso la morte determinano un livello di sofferenza elevato per la famiglia. L’assistenza a quest’ultima in questa fase rappresenta un compito assai difficile per il medico e per tutte le figure professionali coinvolte nell’equipe di medicina palliativa. Una difficoltà nasce dal conflitto di ruolo con cui la famiglia si confronta. La famiglia si pone infatti al contempo sia come “soggetto” di cura, data la funzione di supporto primario per il proprio congiunto ammalato e di strumento co-terapeutico che affianca l’equipe assistenziale, sia come “oggetto” di cura, data la necessità che i bisogni della famiglia siano ascoltati e soddisfatti.

Le reazioni emozionali della famiglia alla fase avanzata di malattia sono spesso inquadrate nel concetto di lutto anticipatorio, un momento importante per la famiglia che si confronta con l’imminenza della perdita del proprio caro. Il lutto anticipatorio non rappresenta una fase anticipata del processo del lutto (poiché di fatto la perdita non è ancora avvenuta), e non sta a significare, nemmeno, che il processo di lutto vero e proprio sarà in seguito facilitato. Nel processo di lutto anticipatorio i sentimenti di depressione sono meno presenti e meno intensi rispetto a quanto accade nel lutto propriamente detto, mentre prevalgono sentimenti di ansia e angoscia di separazione.

In ogni caso, l’attenzione e la giusta comprensione delle reazioni emozionali, degli atteggiamenti e dei comportamenti che i familiari mettono in atto come preparazione alla perdita risultano estremamente importanti nell’assistenza in fase avanzata di malattia. Le reazioni emotive possono oscillare tra sentimenti di paura di non sentirsi all’altezza di ciò che sta per accadere, o di non sentirsi competenti riguardo procedure tecniche e pratiche terapeutiche. Sentimenti di colpa possono presentarsi come reazione al pensiero di non essere stati o di non essere sufficientemente presenti nella condizione di maggior bisogno, o colpa per aver provato rabbia verso il proprio congiunto o di aver desiderato in maniera “egoistica” che “tutto finisse in tempi rapidi”. Sentimenti di tristezza legati alla perdita della propria identità familiare (“non sarà più come prima”) si associano a sentimenti di vuoto, inutilità e di impotenza. Altrettanto frequente è la rabbia, indirizzata verso persone o situazioni (il mondo, dio, il medico,i familiari assenti, gli amici che si ritraggono, il paziente stesso che ci sta per lasciare) e proiettata in senso impersonale all’esterno (il destino, lo stile di vita, lo stato, le istituzioni). Reazioni indicanti meccanismi di minimizzazione o negazione (“forse c’è stato qualche errore negli esami”, “mi pare che le cose vadano meglio, forse non è grave come sembra”) possono essere presenti come modalità per difendersi dall’angoscia e proteggersi da quanto non si vorrebbe avvenisse.

Il lutto rappresenta per la famiglia il momento ultimo del percorso della malattia: mentre nel lutto anticipatorio le perdite riguardavano livelli molteplici ma non quello definitivo della vita, il lutto implica la necessità dell’elaborazione della mutilazione causata dalla morte del proprio caro. Vi riguardo a questo articolo sul lutto per un’analisi più approfondita su questo evento.

Articolo tratto da: Biondi, Grassi, Costantini: Manuale pratico di psico-oncologia. - Il Pensiero Scientifico Editore.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

Pubblicato in Blog

Tra le malattie a minaccia per la vita, il cancro si pone come evento tra i più traumatici e stressanti con il quale chi ne è colpito deve confrontarsi. Nonostante i progressi della medicina in ambito oncologico, infatti, il vissuto soggettivo del cancro e l’interpretazione individuale e sociale di questa malattia restano quelli di un processo insidioso e incontrollabile, che invade, trasforma e, lentamente, porta alla morte.

Il cancro, indipendentemente dai contesti culturali, è considerato in ogni caso la malattia più temuta in assoluto.

Indubbiamente, poche altre malattie hanno così evidenti conseguenze per la persona ammalata, minacciando e interferendo su tutte le dimensioni su cui si fonda l’unicità dell’essere umano: la dimensione fisica, la dimensione psicologica, la dimensione spirituale ed esistenziale e la dimensione relazionale.

A livello fisico il corpo rappresenta il primo nucleo dell’identità personale che viene colpito. Il cancro, portando in primo piano la morte come realtà concreta, rende evidente, spesso in maniera improvvisa e imprevedibile, la finitezza della vita. Gli effetti della malattia e delle terapie, quali le mutilazioni fisiche, il dolore, la nausea e il vomito, la perdita di capelli o l’astenia, determinano modificazioni violente della propria immagine corporea. Tali cambiamenti possono comportare difficoltà nella conduzione della propria vita quotidiana, a causa delle limitazioni del paziente, della necessità di aiuto, della perdita parziale o totale della propria autonomia e della conseguente dipendenza dagli altri.

È evidente che tutto ciò si associa a conseguenze importanti sul piano psicologico, data l’inscindibilità, come esseri umani, della sfera biologica ed emozionale. Le reazioni emotive e le difese psichiche messe in atto dal paziente costituiscono un’area fondamentale per la comprensione del significato della malattia.

Strettamente correlata alla dimensione emozionale è la dimensione spirituale che coinvolge le parti più profonde dell’essere e dell’essenza di ciascuno di noi. È evidente che la spiritualità include non solo la fede ed il proprio credo religioso, ma il senso stesso che si da alla vita e all’esistenza, il significato del tempo e del destino.

Intersecato con queste dimensioni, il livello relazionale descrive e denota gli aspetti relativi al nostro essere individui concepibili e riconoscibili solo in un contesto comunicativo e relazionale. Il nostro senso di appartenenza ai sistemi micro-sociali (famiglia, amici) e macro-sociali (lavoro, comunità, politica) viene minacciato e colpito dalla diagnosi di cancro. Le modifiche relative a come ci si percepisce e a come dagli altri si è, a propria volta, percepiti, minacciano il mantenimento di sentimenti di integrazione e appartenenza, a scapito di sentimenti di abbandono, solitudine ed emarginazione che emergono in maniera tumultuosa e disumanizzante.

Risulta chiaro da quanto scritto come sia l’assistenza alla persona colpita dal cancro sia i percorsi di cura debbano articolarsi prendendo in considerazione, in maniera globale, tutte le dimensioni dell’esistenza.

Il percorso di malattia-cancro è posto all’interno di un continuum che va dalla comparsa dei primi sintomi di sospetto alla guarigione o alla fase di terminalità. Secondo una lettura evolutiva è possibile decodificare e interpretare l’ammalarsi di cancro, approfondendo la comprensione delle implicazioni psicosociali della malattia secondo le singole fasi del percorso che la persona sta affrontando.

In altre parole, possiamo descrivere le conseguenze psicosociali della malattia, differenziando una fase di allarme pre-diagnostico, relativa al periodo della comparsa dei primi sintomi e del sospetto della malattia, una fase acuta, che coinvolge il periodo di crisi determinata dalla diagnosi, e una fase elaborativa, più prolungata, che riguarda il periodo successivo, caratterizzato dal graduale e progressivo riassestamento alla nuova situazione. È evidente che a questa fase possono far seguito ulteriori fasi a seconda dell’evoluzione e dell’esito della malattia, rappresentate rispettivamente dalla guarigione o dalla ricorrenza o recidiva di malattia fino alla morte. Vediamo queste fasi nel dettaglio.

La fase pre-diagnostica rappresenta un momento importante, caratterizzato da emozioni intense e drammatiche. La scoperta di sintomi in sedi o organi noti per il rischio di neoplasia determina una reazione di allarme nei confronti della quale le persone reagiscono attraverso modalità diverse. Alcune variabili entrano in gioco nell’influenzare questo delicato momento: il momento della vita in cui questi sintomi compaiono, la personalità, il bagaglio di esperienze personali di malattia, lo stile individuale con cui l’attenzione o i comportamenti vengono rivolti alla salute.

La più frequente e comprensibile reazione osservabile è quella di allarme, caratterizzata da un elevato senso di preoccupazione e di incertezza rispetto ai significati del sintomo. È questo dubbio atroce, questo pre-sentimento o timore più o meno evidente che spinge, nella maggior parte dei casi, a rivolgersi al proprio medico per iniziare gli accertamenti più idonei. In molte circostanze prevale una reazione di ansia controllabile, mediata dalla tendenza del paziente a razionalizzare la situazione e ad attendere l’esito degli esami diagnostici. In altre circostanze prevale un atteggiamento pessimista in cui i pensieri sono polarizzati dai propri sintomi, vissuti con una certezza intima che stiano ad indicare la presenza del cancro. Gli esami diagnostici risultano quasi sempre stressanti e densi di tensione, ma è soprattutto il periodo dell’attesa dell’esito a risultare estremamente pesante sul piano emotivo. In alcune circostanze invece può accadere che l’inondazione dell’ansia sia talmente elevata che scattino meccanismi di minimizzazione o negazione del significato dei sintomi che la persona ha scoperto e che, quindi, per lungo tempo non vengono portati all’attenzione medica. Nel caso in cui sia, in effetti, presente un processo neoplastico, ciò può portare ad un grave e talvolta irrimediabile ritardo della diagnosi.

Quando i sospetti si trasformano in realtà, si determina la fase di crisi nel senso specifico del termine. Il significato della malattia in tutti i suoi risvolti drammatici invade e travolge la persona, sommergendola in maniera dirompente. Il pattern più tipico della risposta umana a questo tipo di evento è caratterizzato dalla sequenza di reazioni emozionali e comportamentali in cui sembrano succedersi diversi momenti, noti come fase dello shock (caratterizzato da incredulità e protesta per l’evento accaduto, fase di espressione di sintomi emozionali acuti (caratterizzata da stati fluttuanti in cui si alternano rabbia, disperazione, angoscia e paura), fase depressiva (in cui prevale una condizione di demoralizzazione e depressione) e fase della riorganizzazione (in cui si tenta di ristabilire un equilibrio e un riadattamento rispetto alla perdita subita). In tale sequenza di risposte è evidente il bisogno di riportare nella realtà quanto è stato perduto. Nell’impossibilità di riappropriarsi di ciò che non vi è più, si delinea la necessità di adattarsi alla nuova situazione.

Nelle fasi successive, il dover convivere con la malattia e con quanto questa ha determinato o sta determinando nella vita assume un valore centrale. In questa fase, detta del riorientamento, si assiste alla ricerca di significati nuovi da dare sia alla malattia come evento esistenziale sia alla propria esistenza nel suo insieme. Alcuni considerano questa fase come quella del “limbo”, dell’attesa di una definizione più precisa e di una certezza di essere salvi. Questa condizione viene sostenuta da molti pazienti e collegata al tempo che passa, generalmente racchiuso in una cornice definita: cinque anni. Se si resiste per questo periodo la malattia sarà definitivamente sconfitta (e, nell’immaginario, non tornerà mai più. Le visite di controllo però riaprono spesso le ferite, riproponendo le problematiche esistenziali esposte in precedenza. È chiaro che, superato il momento acuto, caratterizzato da risposte emozionali tendenzialmente comuni a tutti gli esseri umani, le modalità con cui si arriva alla elaborazione, accettazione e riorientamento nel proprio percorso di vita della malattia possono essere diverse da persona a persona e dipendono da fattori psicologici, spirituali, sociali e medici.

Le modalità attraverso le quali la malattia si evolve assumono evidentemente un significato specifico rispetto alla risposta psicologica individuale. È ovvio e noto nella pratica clinica che alla recidiva, all’aggravamento dei sintomi e alla prognosi sfavorevole corrisponde un impatto emotivo, psicologico e interpersonale peggiore rispetto alle situazioni la cui guarigione rappresenta l’auspicato esito della malattia. Per fortuna oggi sono sempre più frequenti le situazioni in cui il paziente, grazie all’efficacia delle terapie, guarisce, trovandosi anche a molti anni di distanza “libero” clinicamente dalla malattia. È la condizione di quei pazienti indicati come “long- survivors”. Può risultare scontato che il guarire assuma il significato di ritorno alla norma, di ripresa completa del proprio percorso esistenziale in tutte le dimensioni che lo hanno caratterizzato. In realtà le dimensioni dell’evento sono state tali per cui elementi che mantengono vivo o risvegliano il ricordo sono sempre presenti. La letteratura e la pratica clinica dimostrano infatti che assai diverse sono le conseguenze psicologiche per le persone che hanno attraversato l’esperienza del cancro e diverse quindi le situazioni riscontrabili. In alcuni casi può prevalere una modalità di evitamento di quanto è accaduto. In altri casi, l’evento della malattia e delle conseguenze che questa ha avuto determinano profondi cambiamenti interni che esitano in una profonda percezione di crescita personale che permette di affrontare l’esistenza sotto una luce diversa. In altri casi ancora la persona può mantenere un atteggiamento di preoccupazione continua che non si risolve: i sentimenti di incertezza, le preoccupazioni per la salute, il senso di perdita per come si era e per come non è più, il senso della mancanza di controllo, le difficoltà di adattamento lavorativo, i disturbi della sfera relazionale e della sessualità possono permanere.

Articolo tratto da: Biondi, Grassi, Costantini: Manuale pratico di psico-oncologia. - Il Pensiero Scientifico Editore.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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